All’Università della Calabria succedono cose strane: si demoliscono i centri culturali autogestiti per improbabili motivi di sicurezza e agitando inesistenti questioni di esclusività nell’uso pubblico di spazi altrimenti inutilizzati, e poi si affida arbitrariamente ad esterni la gestione temporanea delle strutture istituzionali, senza criteri trasparenti ma con il metodo silenzioso della conoscenza personale. Come se fosse casa sua, il rettore dispone delle strutture culturali dell’ateneo – costruite con i fondi pubblici e dunque patrimonio di tutti – affidandone la gestione nel chiuso della sua stanza a chi più gli aggrada.
E’ avvenuto così per il Teatro piccolo dell’università che, apprendiamo dai giornali, è stato affidato per tre anni a due compagnie teatrali (sarà vero?), che conosciamo perché nate all’interno del Filorosso. Non si spiega altrimenti la differenza di trattamento riservata dall’amministrazione all’indomani dello sgombero dei capannoni: le due compagnie erano occupanti al pari del centro sociale, ma non solo non sono stati denunciati i loro fondatori, ma anzi hanno ricevuto in premio la gestione del teatro. Sta avvenendo così per il Teatro grande che vede finalmente la luce, dopo anni e anni di lavori e soldi pubblici investiti, eppure la prima iniziativa organizzata è una rassegna curata dal Teatro Stabile di Calabria, struttura che – nonostante il nome che porta – di pubblico non ha praticamente nulla.
Qui non è in discussione la bravura artistica delle organizzazioni citate, quello che si contesta è il modo con cui il rettore Latorre si rapporta da troppo tempo agli spazi culturali che sono una ricchezza non solo per l’università ma per l’intero territorio. Lo stesso metodo che ha portato alla demolizione senza alternative del Filorosso, un centro propulsore di cultura per i giovani calabresi, che ha pagato così la sua indipendenza e la sua libertà. Siamo stati privati – dopo 16 anni – di uno spazio adeguato per la musica rock che l’università aveva offerto, senza volerlo anzi osteggiandolo apertamente, agli studenti, ai gruppi musicali, al territorio. L’università può contare oggi su un teatro grande, un teatro piccolo, diversi anfiteatri, due sale cinematografiche di prossima inaugurazione. Mentre la musica, regina dell’aggregazione giovanile, viene trattata da cenerentola delle arti: nessuna cittadinanza per la musica, cancellati anche gli insegnamenti di musica dal corso di laurea in Dams, unici superstiti la musica barocca (!), il coro polifonico (!) e i rari concerti di musica classica organizzati dal Cams (!)…
E’ come se l’università si trovasse in dote dei gioielli e non sapesse realmente che farne: qual è la politica di lungo corso che l’amministrazione ha in mente per le strutture culturali dell’ateneo? Le premesse non sono buone per niente, non c’è chiarezza, si usano due pesi e due misure verso gli operatori culturali, non c’è confronto negli organi collegiali, non ci sono bandi pubblici. Un’istituzione pubblica deve utilizzare criteri pubblici, deve rendere conto sulle scelte che opera, deve fornire spiegazioni. In questa università invece il solo domandare appare come reato di lesa maestà e le risposte, se e quando arrivano, sono autoritarie e comunque poco convincenti. Un uomo solo al comando non può che commettere errori, specie se si tratta di un economista dal piglio manageriale alle prese con una materia delicata come la cultura (pensate al Cams: il prof di fiducia del rettore, che prometteva grandi innovazioni per le sue doti ‘manageriali’, ha piuttosto affossato la già debole attività del centro).
E’ la comunità universitaria che deve decidere sulla vita degli spazi culturali, ed assumere con coscienza, in un percorso partecipato, la decisione di affidarne la gestione a privati oppure la sfida di provare a gestirle direttamente utilizzando le competenze interne che pure esistono, rischiando, sperimentando e innovando davvero.
Arcavacata 05.11.2011
Filorosso ‘95